Digesting Net - Da un vulcano, la Bellezza
Buon sabato,
nell’attesa di rileggerci il 9 settembre prossimo, ecco un’antologia ragionata dei miei interventi finali.
Non dimenticate di acquistare il mio romanzo (disponibile anche in e-book).
Statemi bene,
Alessandro Loppi (*)
Da un vulcano, la Bellezza
Nell’aprile del 1815, il vulcano indonesiano Tambora regalò un’esplosione devastante senza precedenti, il cui indice di esplosività vulcanica superò il settimo grado (sugli otto della scala). Per intenderci, quello che sterminò Pompei fu del quinto; quello di Krakatoa, del sesto.
L’altezza del vulcano si ridusse da 4.100 a 2.700 metri, l’energia sviluppata dall’esplosione corrispose a quella di 2,2 milioni di Little Boy (l’atomica sganciata su Hiroshima), il boato si udì fino a 2.000 chilometri di distanza (il diametro massimo della Terra è di 40.000, così vi fate un’idea).
Le vittime furono oltre 110.000, cui negli anni a venire se ne aggiungeranno almeno altre 200.000, per malattie respiratorie, carestie e inondazioni, causati dall’immensa mole di materiale vulcanico rilasciata nell’atmosfera. Le temperature calarono soprattutto nell’emisfero settentrionale del Pianeta, tanto che l’anno successivo, il 1816, fu definito l’“anno senza estate”.
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I primi effetti del vulcano Tambora si fanno sentire in Europa già pochi mesi dopo la sua deflagrazione. E tra le prime inconsapevoli vittime c’è un condottiero «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio» che sta per esalare gli ultimi bagliori del suo inevitabile crepuscolo: Napoleone.
18 giugno 1815, siamo nell’attuale Belgio: la Francia sta per scontrarsi contro la Settima Coalizione. Nonostante la stagione, fa troppo freddo, anche per quelle regioni. E sta piovendo, troppo, anche per quelle regioni.
Ora: è vero che il destino di Napoleone è già scritto, ma quell’inconsueta e inedita alterazione climatica peserà sulle sorti della parte conclusiva della battaglia.
C’è fango ovunque, e nel momento critico di quegli scontri, l’ormai stanco condottiero non può usare al meglio il «fulmine» della sua cavalleria pesante, né tantomeno il «baleno» dei proiettili di cannone “a rimbalzo” con cui aveva imposto per anni la «procellosa e trepida gioia d’un gran disegno».
La battaglia di Waterloo (leggerlo in inglese sottintende una sottile riferimento a quelle piogge) cambierà radicalmente le sorti dell’Europa moderna, in parte grazie anche a un innocente vulcano situato a 12.300 km di distanza.
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In Europa, gli effetti climatici dell’eruzione di Tambora coinvolgono anche gli animali da soma: in parte vengono divorati per la carenza di cibo, in parte non posso essere alimentati… per la carenza di cibo. Ne risentono soprattutto l’agricoltura e i trasporti di merci o persone.
E qui arriva il tedesco Karl Freiherr von Drais: inventa uno strumento di trasporto a trazione umana, il draisine, che può muoversi agilmente su qualunque ferrovia per trasportare qualsiasi cosa - e senza consumare fonti energetiche, se non i muscoli di chi lo usa. Non pago, realizzerà successivamente la sua versione stradale, il dandy-horse; e qui siamo dalle parti della bicicletta.
Chi contribuisce, invece, alla rinascita dei terreni agricoli sgretolati dalle intemperie, è un chimico, sempre tedesco, che da bambino ha vissuto in prima persona gli effetti dell’“anno senza estate”. Ottenuto un dottorato in maniera rocambolesca, grazie anche ai buoni uffici del grande Alexander von Humboldt, imprimerà un impulso fondamentale allo sviluppo dei fertilizzanti naturali.
Ma non si limiterà solo a questo. Senza scendere in particolari, vi scrivo giusto il suo nome, perché il resto vi verrà in mente subito dopo averlo letto: Justus von Liebig (già, quello del dado e della carne in scatola).
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I lunghi ed inesorabili effetti dell’eruzione di Tambora si fanno sentire anche nel Nuovo Mondo. Siamo nella vasta regione del cosiddetto New England: le piogge e il gelo costringono una massa consistente di americani - soprattutto di contadini - a spostarsi verso Ovest, alla ricerca di terreni più generosi e di un clima meno aggressivo.
Una migrazione forzata che coinvolge anche l’intera famiglia di Joseph Smith jr. Questi, ispirato anche dalla diffusa richiesta di un conforto spirituale per quelle lunghe carovane verso l’ignoto, fonderà la congregazione della “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni”, il cui testo di riferimento nodale ha in sé un nome che conosciamo bene: “Libro di Mormon”.
Evitando accuratamente ogni considerazione religiosa, segnalo che vicino a Salt Lake City, questa congregazione conserva e aggiorna costantemente le biografie delle persone esistite finora, di cui è riuscita a ricostruire una minima traccia: siamo arrivati a quasi diciotto miliardi di nomi. Una sorta di registro in fieri che potete consultare anche per vostri scopi genealogici.
Per gli impallinati di Adelphi, ne parla Danilo Kiš in questo curiosissimo libro.
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I duraturi effetti dell’eruzione di Tambora del 1815, sono i primi nella Storia di cui abbiamo testimonianze visive, ancorché attraverso la pittura. La fotografia, infatti, ancora non esiste: il suo precursore, il dagherrotipo, verrà sperimentato solo nel 1824, e presentato ufficialmente nel 1836.
Tra i primi pittori testimoni dell’“anno senza estate” (1816), ricordo il tedesco Caspar David Friedrich. Lo conosciamo per Der Wanderer über dem Nebelmeer (1818), il simbolo del Romanticismo, sicuramente influenzato da quei paesaggi lunari. Ma il vero confronto tra prima e dopo l’eruzione, potete farlo tra Paesaggio con arcobaleno (1810) e Due uomini in riva al mare (1817), che ritroveremo anche in Tramonto (1830).
L’altro grande artista che “racconterà” quei paesaggi disturbanti è l’inglese Joseph Mallord William Turner. Già prima, ne Il naufragio (1805), aveva dimostrato una certa attenzione per la potenza della Natura; ma è soprattutto dopo che si manifesterà tutta la sua maraviglia: ecco San Pietro e il “mio” Testaccio (entrambi del 1819), Il lago Petworth (1828) e un sospeso Tramonto (1838).
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Nel giugno 1816, alcuni amici si ritrovano in due ville contigue sulla riva nord del Lago di Ginevra, per trascorrere insieme l’estate dell’… “anno senza estate”, protetti dal gelo inconsueto e dalle costanti piogge.
Trascorrono i primi giorni leggendo “Fantasmagoriana”, otto novelle gotiche tedesche, dense di mistero e di fantasmi. Visto che il tempo non manca e la noia incombe, uno di questi, George Gordon Byron, indice una sorta di gara in cui ognuno dovrà scrivere qualcosa di simile.
La sua quasi-fidanzata, Claire Clairmont, rinuncia.
Tocca, quindi, al suo medico e assistente, John Polidori, cui Byron quasi impone di leggere il suo incompiuto “Fragment of a Novel”, suggerendogli di ampliare la storia del protagonista, un raffinato quanto conturbante personaggio, ispirato a certe tradizioni medievali.
Polidori lo sviluppa, lo affina, lo conforma proprio alle fattezze (e ai difetti) di Byron. Ne viene fuori “Il vampiro” (uscirà nel 1819); da qui si dipana un flusso di intriganti gradi di separazione.
- John Keats scriverà “Lamia” (1820), ispirato dal “Fragment” e dall’antico mito greco omonimo, che gli amanti dei Genesis conoscono in questa versione (1974).
- Bram Stoker scriverà il romanzo epistolare “Dracula” (1897), riprendendo sempre Polidori e miscelandolo sapientemente con la terribile storica figura di Vlad III. Visto che ci siamo: tra tutte le sue letture cinematografiche, suggerisco di vedere almeno quelle di Murnau (1922) Herzog (1979) e Coppola (1992).
- Richard Matheson scriverà un bellissimo romanzo nel 1957, dichiaratamente debitore di Polidori e Stoker, di cui esistono tre eccellenti riduzioni cinematografiche: questa (1964), con Vincent Price; questa (1971), con Charlton Heston; e questa (2007), con Will Smith, l’unica che s’intitoli come il testo di riferimento, “Io sono leggenda”. A latere, è tra i pochi romanzi il cui titolo dichiari esplicitamente come va a finire, nonostante si capisca solo a libro concluso.
(Per gli amanti degli zombi, George Romero ammise più volte che girò il suo splendido “Notte dei morti viventi” (1968), ispirato proprio dal testo di Matheson).
- Anne Rice rimasticherà le opere di Polidori e Stoker, scrivendo il conturbante “Intervista con il vampiro” (1976) che godrà di un delizioso omaggio di Sting (1985) e di una stancosetta omonima traduzione cinematografica (1994).
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Un altro dei protagonisti del lungo convivio organizzato da Byron durante l’“anno senza estate”, è il tormentato Percy Bysshe Shelley.
Anche se la vulgata diffusa recita che non scrisse nulla durante quel soggiorno estivo così gelido e piovoso, alcuni esperti sono convinti che invece vi abbia pensato, se non appuntato, almeno due sue opere.
La prima è il sonetto “Ozymandias” (1817), la cui chiosa sembra descrivere proprio gli effetti dell’eruzione di Tambora. È un piccolo capolavoro che vanta molte citazioni: le più insospettabili sono in un episodio della quinta stagione di Mad Men (2012), in un episodio della quinta e ultima stagione di Breaking Bad (2013); in Alien: Covenant (2017), ultimo dei due prequel del fortunato franchising inaugurato nel 1979; in un episodio dell’undicesima stagione di Big Bang Theory (2018).
La seconda opera è il “Prometeo liberato” (1820), che rilegge la tragedia di Eschilo con un approccio decisamente romantico. Il titolo rieccheggia il sottotitolo del capolavoro di Mary Wollstonecraft, sua moglie. Ne parlo più giù.
Anche in questo caso, ecco qualche grado di separazione: oltre che di Byron, Shelley fu intimo amico di John Keats. Insieme sono seppelliti nel Cimitero Acattolico di Roma, nel Rione Testaccio, in cui troviamo le lapidi di altre figure importanti, tra cui: Gregory Corso, Arnoldo Foà, Carlo Emilio Gadda, Lindsay Kemp, Bruno Pontecorvo, Juan Rodolfo Wilcock e Andrea Camilleri.
[Ricordo anche l’elegante presenza della lapide di Antonio Gramsci, che inevitabilmente collego al bellissimo poemetto (1955) che gli dedicò Pier Paolo Pasolini, l’immenso intellettuale a sua volta omaggiato in un momento del “Caro diario” (1993) di Nanni Moretti, accompagnato dallo struggente capolavoro di Keith Jarrett]
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George Gordon Lord Byron partecipa a quella sorta di gara di testi di ispirazione tardogotica con un capolavoro di rara potenza espressiva: “Darkness” (tradotta magistralmente qui).
Si respira il trionfo della Natura, la sconfitta dell’Uomo, l’Oscurità in tutta la sua conturbante bellezza. In alcuni momenti, sembra di intravedere le scenografie dell’Inferno di Dante, autore amatissimo da Byron.
Anche qui, i gradi di separazione sono stimolanti.
- L’unica figlia riconosciuta da Byron, Ada Lovelace, è considerata la madre della programmazione: in suo onore, infatti, nel 1979 il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti chiamò ADA un metodo per unificare i linguaggi di programmazione. Al contrario di quanto si dice, Ada non fu “abbandonata” da Byron (cfr qui e qui): il poeta accettò a malincuore che la madre la portasse via, perché non voleva si trasformasse in una sua tormentata versione al femminile. Del resto, sarà Ada stessa a voler poi essere seppellita accanto al padre
- Secondo Patrick Leigh Fermor, l’impegno di Byron per l’indipendenza della Grecia fu molto più concreto e determinante di quanto ci abbiano insegnato a scuola, tanto da generare un diffusa riconoscenza anche popolare, perlomeno fino alle generazioni greche degli anni 50
- Byron tenne un diario dei suoi ultimi giorni in Grecia, purtroppo scomparso. Tra le speculazioni su quei contenuti, segnalo “La casa dorata di Samarcanda” (con il Corto Maltese di Hugo Pratt), e un testo di Frederic Prokosch (1989)
- Giuseppe Verdi aveva un vero e proprio debole per le opere di Byron
- Anche Winston Churchill adorava Byron, tanto da citarlo spesso nei suoi incredibili discorsi. Per esempio, il chiamare “United Nations” le Nazioni Unite del secondo dopoguerra fu ispirato dalla 35esima stanza de “Il pellegrinaggio del giovane Aroldo” (ad uso dei morbidoni: i primi versi, invece, sono citati alla fine de “I ponti di Madison County”, 1995)
- Sempre il poema sul Giovane Aroldo ispirò sia una sinfonia di Hector Berlioz che l’omonimo dipinto di Turner; già, proprio il pittore che ci ha fatto “vedere” gli effetti del vulcano Tambora… siamo sempre lì, insomma
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Alla panoplia di queste storia, manca solo un’ultima figura: Mary Wollstonecraft Godwin, futura moglie di Percy Shelley. Dalla gara di opere stimolata da Byron per superare l’“anno senza estate”, infatti, spicca il suo “Frankenstein o il moderno Prometeo” (1818).
La trama è nota, ma mai apprezzata abbastanza, specie dalla nostra cultura, dove Scienza e Fantasia sono (sempre state) malviste.
E dire che gli spunti non mancano: l’autrice è una donna dell’800, con tutte le difficoltà del caso; i temi sono imponenti (l’uomo che si sostituisce a Dio, l’odio per il diverso); quella trama e quell’argomento indicarono orizzonti inediti e inconsueti che vanteranno numerosi tentativi di imitazione, anche in campi lontani dal “semplice” horror.
Non si contano le letture cinematografiche più o meno esplicite, tra cui ricordo quella irriverente (1974) di Mel Brooks, più che altro per indicarvi un curioso grado di separazione: suo figlio Max, infatti, ha scritto tre libri sui morti viventi (1, 2 e 3), le cui origini sono proprio una rilettura del “Vampiro” di Byron e Polidori.
Il riferimento cinematografico che mi preme segnalare, invece, è un’opera un po’ faticosa di Ken Russell, il regista visionario che diresse anche l’appena scomparso William Hurt. “Gothic” (1986) è un “horror psicologico” che racconta proprio il soggiorno svizzero di Polidori, Shelley, Byron e Woolstonecraft Godwin. Di vero nella trama c’è giusto l’antefatto, il resto sono immagini immaginifiche e allucinazioni più o meno gustose.
L’ho segnalato perché il regista butta là una speculazione interessante: in realtà, inventando il mostro di Frankenstein, Mary Woolstonecraft volle elaborare il lutto di un aborto spontaneo.
Per finire, a ridosso di quanto stiamo assistendo in questi giorni, forzo un grado di separazione, ricordando che la colonna sonora del film è di Thomas Dolby, poliedrico musicista - nonché produttore (ricordate i Prefab Sprout?) - che nel 1990 partecipò al concerto celebrativo per la Caduta del Muro.
Quel muro