Buon sabato,
mentre c’è chi tiene ancora (e inutilmente) il broncetto per la Cerimonia più intelligente che abbia mai visto - e un riconoscibile crasso provincialismo italico si scaglia contro la donna Imane Khelif - apriamo questi numeri antologici con una lunga storia che inizia dal vulcano Tambora, arricchita da alcune novità che ho letto recentemente.
Statemi bene,
Alessandro Loppi (*)
Da un vulcano, la Bellezza
Nell’aprile del 1815, il vulcano indonesiano Tambora eruttò con inusitata violenza: l’indice di esplosività vulcanica toccò il settimo grado (sugli otto della scala). Per intenderci, quello che sterminò Pompei fu del quinto. L’altezza del vulcano si ridusse da 4.100 a 2.700 metri, l’energia sviluppata dall’esplosione corrispose a quella di 2,2 milioni di Little Boy (l’atomica sganciata su Hiroshima), il boato si udì fino a 2.000 chilometri di distanza (il diametro massimo della Terra è di 40.000, così vi fate un’idea).
Le vittime furono oltre 110.000, cui negli anni a venire se ne aggiungeranno almeno altre 200.000, per malattie respiratorie, carestie e inondazioni, causati dall’immensa mole di materiale vulcanico rilasciata nell’atmosfera. Le temperature calarono soprattutto nell’emisfero settentrionale del Pianeta, tanto che l’anno successivo, il 1816, fu definito l’“anno senza estate”.
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I primi effetti dell’eruzione si fanno sentire in Europa già pochi mesi dopo. E tra le prime inconsapevoli vittime c’è un condottiero «vergin di servo encomio e di codardo oltraggio» che sta per esalare gli ultimi bagliori del suo inevitabile crepuscolo: Napoleone.
18 giugno 1815, siamo nell’attuale Belgio: la Francia sta per scontrarsi contro la Settima Coalizione. Nonostante la stagione, fa troppo freddo, anche per quelle regioni. E sta piovendo, troppo, anche per quelle regioni.
È vero che il destino di Napoleone è già scritto, ma quell’inconsueta e inedita alterazione climatica peserà sulle sorti della parte conclusiva della battaglia.
C’è fango ovunque: nel momento critico di quegli scontri, l’ormai stanco condottiero non può usare al meglio il «fulmine» della sua cavalleria pesante, né tantomeno il «baleno» dei proiettili di cannone “a rimbalzo” con cui aveva imposto per anni la «procellosa e trepida gioia d’un gran disegno».
La battaglia di Waterloo (leggerlo in inglese sottintende una sottile riferimento a quelle piogge) cambierà radicalmente le sorti dell’Europa moderna, in parte grazie anche a un innocente vulcano situato a 12.300 km di distanza.
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In Europa, gli effetti climatici dell’eruzione coinvolgono anche gli animali da soma: in parte vengono divorati per la carenza di cibo, in parte non posso essere alimentati… per la carenza di cibo. Ne risentono soprattutto l’agricoltura e i trasporti di merci o persone.
E qui arriva il tedesco Karl Freiherr von Drais: inventerà uno strumento di trasporto a trazione umana, il draisine, che può muoversi agilmente su qualunque ferrovia per trasportare qualsiasi cosa - e senza consumare fonti energetiche, se non i muscoli di chi lo usa. Non pago, realizzerà successivamente la sua versione stradale, il dandy-horse; siamo dalle parti della bicicletta.
Chi contribuisce, invece, alla rinascita dei terreni agricoli sgretolati dalle intemperie, è un chimico, sempre tedesco, che da bambino ha vissuto in prima persona gli effetti dell’“anno senza estate”. Ottenuto un dottorato in maniera rocambolesca, grazie anche ai buoni uffici del grande Alexander von Humboldt, imprimerà un impulso fondamentale allo sviluppo dei fertilizzanti naturali.
Ma non si limiterà solo a questo. Senza scendere in particolari, vi scrivo giusto il suo nome, perché il resto vi verrà in mente subito dopo averlo letto: Justus von Liebig (già, quello del dado e della carne in scatola, inventati proprio in quegli anni).
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I lunghi ed inesorabili effetti dell’eruzione si fanno sentire anche nel Nuovo Mondo. Siamo nel New England: le piogge e il gelo costringono una massa consistente di americani - soprattutto contadini - a spostarsi verso Ovest, alla ricerca di terreni più generosi e di un clima meno aggressivo.
Una migrazione forzata che coinvolge anche l’intera famiglia di Joseph Smith jr. Questi, ispirato anche dalla diffusa richiesta di un conforto spirituale per quelle lunghe carovane verso l’ignoto, fonderà la congregazione della “Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli ultimi giorni”, il cui testo di riferimento nodale ha in sé un nome che conosciamo bene: “Libro di Mormon”.
Evitando ogni considerazione religiosa, segnalo che vicino a Salt Lake City, la congregazione dei mormoni conserva e aggiorna costantemente le biografie delle persone di cui è riuscita a ricostruire una minima traccia: siamo arrivati a quasi diciotto miliardi di nomi. Una sorta di registro in fieri che potete consultare anche per vostri scopi genealogici.
Per gli impallinati di Adelphi, ne parla Danilo Kiš in questo curiosissimo libro.
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I duraturi effetti dell’eruzione, sono i primi nella Storia di cui abbiamo testimonianze visive… attraverso la pittura. La fotografia, infatti, ancora non esiste: il suo precursore, il dagherrotipo, verrà sperimentato solo nel 1824, e presentato ufficialmente nel 1836.
Tra i primi pittori testimoni dell’“anno senza estate” (1816), ricordo il tedesco Caspar David Friedrich (cfr questa splendida biografia). Lo conosciamo per Der Wanderer über dem Nebelmeer (1818), il simbolo del Romanticismo, sicuramente influenzato da quei paesaggi lunari. Ma il vero confronto tra prima e dopo l’eruzione, potete farlo tra Paesaggio con arcobaleno (1810) e Due uomini in riva al mare (1817), che ritroveremo anche in Tramonto (1830).
Alcune opere del “Friedrich post-Tambora” influenzeranno almeno quattro artisti: Walt Disney, per gli sfondi delle ultime scene di Bambi; Samuel Beckett, per la scarna scenografia del suo Aspettando Godot; Walter Gropius, per il suo omaggio alle vittime del Putsch di Kapp; Leni Riefenstahl, per le scenografie de La bella maledetta.
L’altro grande artista che “racconterà” quei paesaggi disturbanti è l’inglese Joseph Mallord William Turner. Già prima, ne Il naufragio (1805), aveva dimostrato una certa attenzione per la potenza della Natura; ma è soprattutto dopo che si manifesterà tutta la sua maraviglia: ecco San Pietro e il “mio” Testaccio (entrambi del 1819), Il lago Petworth (1828) e un sospeso Tramonto (1838).
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Nel giugno 1816, alcuni amici si ritrovano in due ville contigue sulla riva nord del Lago di Ginevra, per trascorrere insieme l’estate dell’“anno senza estate”, protetti dal gelo inconsueto e dalle costanti piogge.
Trascorrono i primi giorni leggendo “Fantasmagoriana”, otto novelle gotiche tedesche, dense di mistero e di fantasmi. Visto che il tempo non manca e la noia incombe, uno di questi, George Gordon Byron, indice una sorta di gara in cui ognuno dovrà scrivere qualcosa di simile.
La sua quasi-fidanzata, Claire Clairmont, rinuncia.
Tocca, quindi, al suo medico e assistente, John Polidori, cui Byron quasi impone di leggere il suo incompiuto “Fragment of a Novel”, suggerendogli di ampliare la storia del protagonista, un raffinato quanto conturbante personaggio, ispirato a certe tradizioni medievali.
Polidori lo sviluppa, lo affina, lo conforma proprio alle fattezze (e ai difetti) di Byron. Ne viene fuori “Il vampiro” (uscirà nel 1819); da qui si dipana un flusso di intriganti gradi di separazione.
- John Keats scriverà “Lamia” (1820), ispirato dal “Fragment” e dall’antico mito greco omonimo, che gli amanti dei Genesis conoscono in questa versione (1974).
- Bram Stoker scriverà il romanzo epistolare “Dracula” (1897), riprendendo sempre Polidori e miscelandolo sapientemente con la terribile storica figura di Vlad III. Visto che ci siamo: tra tutte le sue letture cinematografiche, suggerisco di vedere almeno quelle di Murnau (1922, di cui alcune inquadrature sono un dichiarato omaggio a certe opere di Caspar David Friedrich), Herzog (1979, che qui potete vedere gratis) e Coppola (1992).
- Richard Matheson scriverà un bellissimo romanzo nel 1957, dichiaratamente debitore di Polidori e Stoker, di cui esistono tre eccellenti riduzioni cinematografiche: questa (1964), con Vincent Price; questa (1971), con Charlton Heston; e questa (2007), con Will Smith, l’unica che s’intitoli come il testo di riferimento, “Io sono leggenda”. A latere, è tra i pochi romanzi il cui titolo dichiari esplicitamente il finale, nonostante si capisca solo a libro concluso.
- Per gli amanti degli zombi, George Romero ammise più volte di aver girato il suo splendido Notte dei morti viventi (1968, che qui potete vedere gratis), ispirandosi proprio dal testo di Matheson.
- Anne Rice rimasticherà le opere di Polidori e Stoker, scrivendo il conturbante “Intervista con il vampiro” (1976) che godrà di un delizioso omaggio di Sting (1985) e di un’omonima traduzione cinematografica (1994).
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Un altro dei protagonisti del convivio organizzato da Byron è il tormentato Percy Bysshe Shelley.
Anche se la vulgata recita che non scrisse nulla durante quel soggiorno, alcuni esperti sono convinti che invece vi abbia pensato, se non appuntato, almeno due sue opere.
La prima è il sonetto “Ozymandias” (1817), la cui chiosa sembra descrivere proprio gli effetti dell’eruzione di Tambora. È un piccolo capolavoro che vanta molte citazioni: le più insospettabili sono in un episodio della quinta stagione di Mad Men (2012), in un episodio della quinta e ultima stagione di Breaking Bad (2013); in Alien: Covenant (2017), ultimo dei due prequel del fortunato franchising inaugurato nel 1979; in un episodio dell’undicesima stagione di Big Bang Theory (2018).
La seconda opera è il “Prometeo liberato” (1820), che rilegge la tragedia di Eschilo con un approccio decisamente romantico. Il titolo rieccheggia il sottotitolo del capolavoro di Mary Wollstonecraft, sua moglie. Ne parlo più giù.
Anche in questo caso, ecco qualche grado di separazione: oltre che di Byron, Shelley fu intimo amico di John Keats. Insieme sono seppelliti nel Cimitero Acattolico di Roma, nel Rione Testaccio, in cui troviamo le lapidi di altre figure importanti, tra cui: Gregory Corso, Arnoldo Foà, Carlo Emilio Gadda, Lindsay Kemp, Bruno Pontecorvo, Juan Rodolfo Wilcock e Andrea Camilleri.
[Ricordo anche l’elegante presenza della lapide di Antonio Gramsci, che inevitabilmente collego al bellissimo poemetto (1955) che gli dedicò Pier Paolo Pasolini, l’immenso intellettuale a sua volta omaggiato in un momento del “Caro diario” (1993) di Nanni Moretti, accompagnato dallo struggente capolavoro di Keith Jarrett]
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George Gordon Lord Byron partecipa a quella sorta di gara di testi di ispirazione tardogotica con un capolavoro di rara potenza espressiva: “Darkness” (tradotta magistralmente qui).
Si respira il trionfo della Natura, la sconfitta dell’Uomo, l’Oscurità in tutta la sua conturbante bellezza. In alcuni momenti, sembra di intravedere le scenografie dell’Inferno di Dante, autore amatissimo da Byron.
Anche qui, i gradi di separazione sono stimolanti.
- L’unica figlia riconosciuta da Byron, Ada Lovelace, è considerata la madre della programmazione: in suo onore, nel 1979 il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti chiamò ADA un metodo per unificare i linguaggi di programmazione. Al contrario di quanto si dice, Ada non fu “abbandonata” da Byron (cfr qui e qui): il poeta accettò a malincuore che la madre la portasse via, perché non voleva si trasformasse in una sua tormentata versione al femminile. Del resto, sarà Ada stessa a voler poi essere seppellita accanto al padre
- Secondo Patrick Leigh Fermor, l’impegno di Byron per l’indipendenza della Grecia fu molto più concreto e determinante di quanto ci abbiano insegnato a scuola, tanto da generare un diffusa riconoscenza anche popolare, perlomeno fino alle generazioni greche degli anni 50 del 1900
- Byron tenne un diario dei suoi ultimi giorni in Grecia, purtroppo scomparso. Tra le speculazioni su quei contenuti, segnalo “La casa dorata di Samarcanda” (con il Corto Maltese di Hugo Pratt), e un testo di Frederic Prokosch (1989)
- Giuseppe Verdi aveva un vero e proprio debole per le opere di Byron
- Anche Winston Churchill adorava Byron, tanto da citarlo spesso nei suoi incredibili discorsi. Per esempio, il chiamare “United Nations” le Nazioni Unite del secondo dopoguerra fu ispirato dalla 35esima stanza de “Il pellegrinaggio del giovane Aroldo” (ad uso dei morbidoni: i primi versi, invece, sono citati alla fine de I ponti di Madison County, 1995)
- Sempre il poema sul Giovane Aroldo ispirò sia una sinfonia di Hector Berlioz che l’omonimo dipinto di Turner; già, proprio il pittore che ci ha fatto “vedere” gli effetti del vulcano Tambora… siamo sempre lì, insomma
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Alla panoplia di queste storia, manca Mary Wollstonecraft Godwin, futura moglie di Percy Shelley. Dalla gara di opere stimolata da Byron per superare l’“anno senza estate”, infatti, spicca il suo “Frankenstein o il moderno Prometeo” (1818).
La trama è nota, ma mai apprezzata abbastanza, specie dalla nostra cultura, dove Scienza e Fantasia sono (sempre state) malviste.
E dire che gli spunti non mancano: l’autrice è una donna dell’800, con tutte le difficoltà del caso; i temi sono imponenti (l’uomo che si sostituisce a Dio, l’odio per il diverso); quella trama e quell’argomento indicarono orizzonti inediti e inconsueti che vanteranno numerosi tentativi di imitazione, anche in campi lontani dal “semplice” horror.
Non si contano le letture cinematografiche più o meno esplicite, tra cui ricordo quella irriverente (1974) di Mel Brooks, più che altro per indicarvi un curioso grado di separazione: suo figlio Max, infatti, ha scritto tre libri sui morti viventi (1, 2 e 3), figli della mente di Romero, ispirata da Matheson, ispirato da Polidori eccetera eccetera.
Il riferimento che mi preme evidenziare, è un’opera un po’ faticosa del regista visionario Ken Russell. Gothic (1986) è un “horror psicologico” che racconta proprio il soggiorno svizzero di Polidori, Shelley, Byron e Woolstonecraft Godwin. Di vero nella trama c’è giusto l’antefatto, il resto sono immagini immaginifiche e allucinazioni più o meno gustose.
L’ho segnalato perché il regista butta là una speculazione interessante: con Frankenstein, Mary Woolstonecraft volle elaborare il lutto di un aborto spontaneo.
Per finire, a ridosso di quanto stiamo assistendo in questi giorni, forzo un grado di separazione, ricordando che la colonna sonora del film è di Thomas Dolby, poliedrico musicista - nonché produttore (ricordate i Prefab Sprout?) - che nel 1990 partecipò al concerto celebrativo per la Caduta del Muro.
Quel muro