Buon sabato,
a me sembra che il Pianeta Donna abbia avuto un atteggiamento prudente, quasi attendista, nei confronti di Imane Khelif. Eppure, la melma che le è stata riversata addosso avrebbe dovuto suscitare uno sdegno fragoroso, assordante.
Sperando di essere smentito da qualcuna delle mie lettrici, vi propongo alcune mie recensioni a film dedicati a figure e/o storie di donne di cui si è parlato in questi ultimi anni.
Statemi bene,
Alessandro Loppi (*)
Nyad - Fair Play - Povere creature - Shirley - C’è ancora domani
Tra i tanti film che Jodie Foster ha impreziosito con la sua eccellente recitazione, segnalo Nyad, perché si presta a qualche ragionamento.
Leggendo la scheda sul Wikipedia inglese, infatti, in coda vengono indicate molte e consistenti polemiche che sminuiscono la portata dell’impresa raccontata: una donna ormai 64enne riesce a nuotare, in solitaria e senza gabbia di protezione, da Cuba fino alla Florida; 177 chilometri faticosi e rischiosissimi.
Il film è così potente e credibile, che alla fine poco importa se le cose non siano andate proprio come vengono raccontate, poco interessa sapere che l’impresa non sia stata catalogata perché non conforme al regolamento vigente del Guinnes dei Primati. Il film racconta una storia, punto.
E lo sottolineo perché i temi narrati sono universali, la tenacia e la credibilità delle due protagoniste va ben oltre le personalità rappresentate, perché le imprese impossibili riescono solo quando sei circondato da chi sa criticarti e appoggiarti al tempo stesso.
Nyad non celebra una donna, ma la potenza insita della femminilità. Nonostante non voglia essere femminista, è molto più femminista di certi film dichiarati, perché delinea le sfumature delle incertezze che le donne vivono sulla propria pelle ogni giorno, anche quelle combattute contro sé stesse.
E il finale, così vivo e palpitante, strappa più di una lacrima di commozione, perché sono convinto che ogni spettatrice vi intraveda le proprie battaglie quotidiane - e quella rara capacità di rialzarsi immediatamente, costi quello che costi
Fair Play (2023) è un film strano: presi singolarmente gli elementi che lo compongono non funzionano; ma la loro somma, invece, segna la mente dello spettatore a distanza di tempo.
Interpretato da due attori sottotono (lei, l’avete vista su Bridgerton; lui, su Solo), con una fotografia didascalica, una regia sommessa e una musica che dimentichi dopo un minuto, ha una trama prevedibile e senza ritmo: “un disastro”, penserete.
Eppure, la storia di una donna in carriera che riesce a sfondare, con un fidanzato che invece non sa accettare quei successi, colpisce proprio perché è tutto così banale e finto e mal raccontato, che il guizzo finale (veramente alla fine: dura cinque secondi, neanche) sembra “solo” un rimedio narrativo per salvare il film.
Poi, però, dopo accade qualcosa dentro la mente dello spettatore, qualcosa che lavora inesorabilmente e con dissimulata caparbietà, che riempie gli spazi delle giornate, che pone dei dubbi e falsa tutte le risposte, che rende esattamente l’angoscia della donna, la sua difficoltà di realizzarsi, la pochezza del maschio “ferito” (da cosa? vallo a capire).
Insomma, io vi consiglio di vederlo perché sono convinto che lavorerà nella vostra anima così come ha scavato nella mia
In Italia, sussiste una sorta di ricatto a priori per cui non conviene esprimere considerazioni controcorrente su alcune opere, anche quando queste sono oggettivamente imbarazzanti. È il caso di Povere creature! (2023), un film che deve piacere per forza, nonostante sia tecnicamente mediocre ed esteticamente ridicolo.
La regia non ha nerbo né idee; il montaggio è approssimativo; la direzione della fotografia si affida a ottiche usate a casaccio e senza criterio narrativo; la sceneggiatura è un pastiche di situazioni scollegate (spero che il romanzo sia migliore, sebbene ampiamente debitore di Heinlein e Greenaway); le recitazioni, ai limiti della querela per sciatteria; la musica, una presa per i fondelli.
Si salva giusto Emma Stone, che recita con mestiere, ma senza pensare che il lavorare per sottrazione sarebbe stata la formula migliore, almeno in questo contesto.
Si dice che sia un film contro i pregiudizi, un’elegia della libertà di scelta, il simbolo del riscatto delle donne. Davvero? Trenta minuti di sesso e novanta minuti di noia, per uno sbiadito monumentino all’emancipazione femminile?
Shirley Chisholm è stata la prima donna afroamericana eletta al Congresso degli Stati Uniti. Caparbia, illuminata e sicura di sé, provò a candidarsi per le presidenziali del 1972 (quando Kamala Harris aveva compiuto appena 8 anni), perdendo però le primarie, più per logiche interne della sua stessa comunità, che per la propria ammessa inesperienza.
Il film Shirley (2024) prova a raccontare quella breve corsa verso l’utopia, adottando più una messa in scena di stampo teatrale che quella di una sceneggiatura cinematografica: l’idea di base non ne risente, però l’attenzione dello spettatore può calare se non è ben motivato.
Un conto, infatti, è puntare sulla forza dei dialoghi sui massimi sistemi borghesi (come càpita nelle drammaturgie tradotte in pellicola), un conto è provare a inventare spunti dinamici improbabili, visto che la trama si attiene alla dialettica politica, spesso statica ed estenuante.
È un film gradevole e a tratti trascinante, che andrebbe visto in originale.
Per gli impallinati di gradi di separazione: ad un certo punto, appare George Wallace, democratico ma segregazionista (poi ci ripensò), anche lui in corsa per quelle primarie. Durante una delle sue missioni elettorali, uno squilibrato provò ad ucciderlo: per le ferite riportate, restò paralizzato.
Lo psicomatto agì solo per folle vanità: la sua figura ispirò il Travis Bickle di Taxi Driver (1976); il suo diario sconclusionato, invece, divenne fonte di ispirazione per questo piccolo gioiello di Peter Gabriel (1980)
C’è ancora domani è un film naif. In un contesto “normale” avrebbe ottenuto un successo standard e una moderata attenzione da parte dei media: in questo momento complicato per l’Italia, invece, è diventato il simbolo di una riscossa autoriale e sociale che, spiace dirlo, è esagerato.
Il punto debole più evidente è la sceneggiatura: una sequenza di quadri narrativi collegati senza criterio, con rari momenti surreali, altri didascalici, altri montati in maniera illogica.
Quelli surreali potevano funzionare e diventare una chiave narrativa, ma perdono di forza sia per la modestia attoriale sia per un’evidente disomogeneità con la sintassi filmica nel suo insieme. Peccato, perché la “danza della violenza” è un’idea meravigliosa.
I momenti didascalici (sicuramente necessari) cercano di aggrapparsi al neorealismo italiano migliore, ma sono fiacchi perché mal recitati (la costante di questo film: attori poco convinti).
L’idea di alternare i formati della pellicola, poi, avrebbe un suo senso se collegabile a dei leit-motiv; ma se alcuni momenti in 4/3 puntano all’oblio dei bei ricordi che furono, quello con lo schiaffone li contraddice. Schiaffone che peraltro apre il film, e che posto così non significa nulla.
Tra i momenti non-surreali, quello che proprio fa esclamare “embè!” è l’esplosione del bar (andateci nella vita reale, perché fanno gelati strepitosi!): improbabile, insensata, proposta con una sintassi ordinaria anziché surreale. Considerato la trama, andava sceneggiata in ben altra maniera. Così com’è, invece, sembra un rimedio frettoloso.
La fotografia in b/n, poi, segue almeno tre linguaggi: a volte è evocativa, a volte è narrativa, a volte è onirica; ma senza ratio. Anche qui, colpa della sceneggiatura.
Sceneggiatura che si dimostra debole anche nel montaggio, visto che ogni transizione viene rappresentata meccanicamente, senza sorprendere, senza accompagnare, senza incrociare i quadri (se non con dei totali ingenui).
L’unica idea vincente è il parallelo finale: tutti pensiamo a una fuga programmata con Marchioni, mentre invece Cortellesi vuole andare “solo” a votare.
La musica, invece, è convincente: Marchitelli propone autori e canzoni modernissimi, apparentemente stridenti con il contesto storico; ma, proprio per questo, funzionano benissimo.
Insopportabile, invece, l’epiogo, quando la canzone di Silvestri entra nella trama, sminuendo la necessaria e sacrosanta retorica del momento: è uno stratagemma alla Moretti che non ho mai amato.
A mio avviso, a questo film è mancato un produttore, uno che sapesse dire i giusti “no”, valorizzando con forza, invece, le parti nobili di un prodotto che alla fine appare confuso e poco al di sopra della sufficienza. Purtroppo, in Italia quella del produttore capace è un figura che manca da molto tempo, così come mancano autori e registi veramente bravi e coraggiosi.
Per essere un’opera prima, brava la Cortellesi, perlomeno per il tentativo. Ma non parliamo di miracolo né di capolavoro, per favore. Oltretutto, l’accusa di aver semplificato un tema forte e radicato quale la violenza maschile (non solo fisica) diventa più consistente proprio perché il linguaggio filmico nel suo complesso non funziona: è ingenuo, didascalico e friabile.
A latere, con quasi 5 milioni e mezzo di biglietti staccati, viene da chiedersi: ma dov’è ‘sta gente? Chi vota? Voglio dire che con questa desertificazione dell’etica, della morale, meraviglia una fame civica così apparentemente diffusa.
Post scriptum La premier non ha partecipato alla proiezione in Senato: eppure, i diritti di cui parla il film sono anche i suoi e dei componenti il suo partito, e sono frutto del sangue versato dalle donne e dagli uomini di PCI, DC, PRI, PLI, PSI… antifascisti, ricordiamolo