Digesting Net - Storie di musica
Buon sabato,
nell’attesa di rileggerci il 9 settembre prossimo, ecco un’antologia ragionata dei miei interventi finali.
Non dimenticate di acquistare il mio romanzo (disponibile anche in e-book).
Statemi bene,
Alessandro Loppi (*)
Il sesso nel rock è così presente e preponderante che quando non se ne parla, quasi ci insospettiamo. In alcuni casi, però, ci sono dei “sottogeneri” che sembrano quasi averne paura o comunque ne parlano in maniera veramente astratta, tanto che te ne accorgi dopo ennetanti ascolti: il rock progressivo, per esempio.
Prendiamo “The Cinema Show” dei Genesis. La prima strofa vede Giulietta prepararsi per il suo primo appuntamento, guarda caso al cinema. La seconda strofa vede, invece, Romeo bricconcellamente consapevole che se rispetterà le giuste tappe potrà vivere una notte di passione.
Poi, però, accade una cosa che al primo ascolto è senza nesso: nel ritornello, Peter Gabriel cambia totalmente argomento, citando l’indovino Tiresia. È un passaggio che conoscono anche i non appassionati perché Andrea Camilleri lo usò come apertura del suo ultimo spettacolo teatrale: Take a little trip back with father Tiresias/ Listen to the old one speak of all he has lived through / I have crossed between the poles, for me there’s no mystery / Once a man, like the sea I raged / Once a woman, like the earth I gave / But there is in fact more earth than sea.
Cosa diamine c’entra Tiresia, mitologico saggio dei tempi andati?
Considerato che per una leggerezza che aveva commesso, Tiresia era stato costretto per qualche anno a essere una donna per poi ritornare uomo, Zeus ed Era, durante una delle loro oziose litigate, ne approfittano per chiedergli chi prova più piacere nel rapporto sessuale, una donna o un uomo? Tiresia risponde la donna, rivelando quindi un segreto femminile: allora, come ti sbagli, Era lo punisce rendendolo cieco; al contrario, Giove lo ricompensa, rendendolo l’indovino tra gli indovini.
Dopo questa breve passeggiata nella mitologia greca, e rileggendo quindi il ritornello, si comprende il senso della scelta di Peter Gabriel.
E quindi, in soldoni: Romeo e Giulietta vivranno un’indimenticabile notte d’amore? Ascoltando il mitologico assolo di Tony Banks, la risposta è solo una…Uno dei trucchi che uso per riportare i nostri gattoni in un ambiente sicuro è agitare una striscia di velluto, intonando l’incipit di “Koyaanisqatsi”, la straordinaria colonna sonora di Philip Glass del film omonimo: i due mi vengono incontro festosi, sicuri di poter ghermire quella povera striscetta. Non mi chiedete quale sia il nesso, ma l’espediente funziona ed è diventato un appuntamento fisso.
Certo è che dietro quella musica e quelle immagini si intravede una generazione che ancora sapeva affermare le proprie idee con l’arte, anziché brutalizzare l’arte per esprimere le proprie idee.
L’opera in sé è un film sperimentale (il primo del genere, che in fondo copiamo tutti ancora oggi), il cui regista Godfrey Reggio cercò di rappresentare il modernismo, la società occidentale e la crisi climatica con filmati che parlano da soli, senza commento alcuno: riprese straordinarie, sincronizzate amabilmente con le note (o sulle note) di Glass, in cui l’afflato ecologista, l’empatia ambientalista, il monito costruttivo e argomentato, funzionano perfettamente, senza retorica e senza ipocrisie.
Era il 1982: quando uscì nelle sale, il film ebbe un successo inaspettato, che andò oltre la nicchia dei nerd dell’epoca, tanto che quando nascerà Videomusic qualche anno dopo, ne proporrà alcuni passaggi in ogni possibile fascia oraria, forse perché il pubblico televisivo era più accogliente, forse perché i linguaggi e le piattaforme di allora erano limitatissimi - e ogni novità doveva avere in sé anche una professionale credibilità, che sapesse stimolare, incuriosire, arricchire.
Quella formula immagini+musica funzionò a tal punto che il duo Reggio/Glass propose due seguiti (nel 1988 e nel 2002), trasformando l’’operazione in una trilogia (con una sorta di corollario (1991), sponsorizzato dal WWF)Quando devo richiamare i nostri gattoni all’appuntamento col pasto, fischietto (rovinandole) le splendide otto note che aprono il primo movimento della Quarta Sinfonia (1862) di Johannes Brahms, una di quelle magnificenze assolute che lasciano il fiato sospeso dall’inizio alla fine.
E ogni volta mi viene in mente che quando si fa una qualsiasi promozione nazionalpopolare della musica colta, di Brahms se ne parla poco: qualcuno di sfuggita cita giusto la “Ninna nanna” o la quinta delle “Rapsodie ungheresi” (resa spassosa dal Chaplin del “Grande dittatore”).
Certo, addentrandoci nella memoria comune, può venire in mente anche il dolcissimo terzo movimento della Terza Sinfonia (1883), perché è il leitmotiv del film “Le piace Brahms?” (1961), tratto dall’omonimo romanzo uscito qualche anno prima. Senza quelle note così struggenti, la trama sarebbe poca cosa. Che poi, a pensarci bene, sono le stesse note attualizzate da Santana (proprio lui!) centosedici anni dopo in “Love of My Life”, con la voce vellutata di Dave Matthews.
Eppure, la terza delle Tre B (le altre due sono Bach e Beethoven) ne ha scritte di cattedrali musicali: l’elenco sarebbe arbitrario e limitato.
Considerato il poco spazio a disposizione, vi suggerisco “Un Requiem Tedesco”, l’unico requiem che non ha a che vedere con la morte. Questa direzione è forse la migliore (a latere: nonostante sia registrato dal vivo, il coro lo esegue senza spartito).
È una composizione che mi ha cambiato la vita.
LetteralmenteSiete un cantante di successo che per un lustro ha composto canzoni pop con quel non so che di trasversale, che funziona anche con arrangiamenti jazz o easy.
Un bel giorno, ascoltate un capolavoro di Sergei Rachmaninoff e restate folgorato: è il “Concerto per pianoforte e orchestra numero 2, in Do minore” (1900).
Il primo tellurico movimento lo conosciamo tutti: per anni è stato la sigla di apertura de La Storia siamo noi, intarsiata anche da citazioni storiche («Cari figlioli, date una carezza ai vostri bambini…», ricordate?).
Ma è il secondo movimento che vi dice qualcosa (qui in una toccante lettura di Vladimir Aškenazi). Non ci sono l’animo languoroso del russo disincantato o le distese infinite dove lo sguardo si aggrappa al nulla: nel secondo movimento c’è una canzone abbozzata. Bisogna solo tirarla fuori.
Visto che è il 1975, non dovreste avere problemi di copyright. E quindi, grazie anche a quelle note, componete una canzone che diventerà un successo clamoroso: “All by Myself” (qui, l’originale; qui, invece, la versione di Celine Dion).
Un bel giorno, però, bussano alla porta della vostra lussuosa villa e vi trovate davanti gli eredi di Rachmaninoff: «Caro Eric Carmen», vi dicono, «la tua canzone è stata pubblicata anche fuori dagli USA, dove le opere del nostro caro Sergei sono ancora tutelate dal copyright. Evitiamo una bella causa: accordiamoci!». E accordo sarà…Fine anni ‘80. Durante un concerto dal vivo, Ivan Graziani impugna una chitarra acustica, guarda il pubblico e dice: «Questa è la versione originale», e inizia a cantare “Agnese”. Alludeva a Phil Collins, reo di averlo presumibilmente plagiato con la sua “A Groovy Kind of Love”.
Onestamente, non so dirvi quanto ci sia di vero in questo aneddoto, perché me lo raccontò nel 1989 un tipo poco credibile. Però ricordo nitidamente come all’epoca in molti credemmo comunque al plagio, privi di internet o di qualsivoglia fonte certa.
Apparentemente, poi, Graziani sembrava avere ragione, visto che “Agnese” era uscita nel 1979 e “A Groovy Kind of Love” di Collins nove anni dopo, nel 1988. Però, bastava leggere i credit sulla copertina del disco del batterista dei Genesis per rendersi conto che in realtà gli autori erano Toni Wine e Carole Bayer Sager - e che l’avevano composta nel 1965 (quattordici anni prima di Graziani).
E quindi: chi-aveva-copiato-chi? Paradossalmente, tutti e nessuno, perché se ascoltate qui, c’è da giurare che Muzio Clementi era arrivato prima di tutti, nel 1797, con il rondò della sua “Sonatina numero 5 per solo piano”. Che poi, per carità, magari qualcuno era arrivato prima di lui…Avevo 16 anni quando uscì il doppio LP “The Concert in Central Park” (1982), di Simon & Garfunkel. Restai ammaliato da una canzone “minore”, “American Tune”, così dolce e vaporosa da far venire i brividi: sentite che roba.
La mia memoria bussò alla mia mente per dirmi che l’avevo già ascoltata quand’ero piccolo, ma in altre forme. Ancora non esisteva internet: come potevo indagare?
Preso da furia mistica, affidandomi a quel miscuglio di ricordi fotografico-uditivi che dovremmo sempre allenare, scartabellai la collezione di LP di mia madre, per imbattermi finalmente su una sontuosa edizione della “Passione secondo Matteo” di Bach: nella scena numero 54 trovai la risposta. E che risposta.
Va precisato che Bach aveva “solo” armonizzato un inno latino dalle origini ricche di riferimenti. Se poi volete farvi una vaghissima idea della cadenza originale, ascoltate quiErnest Hemingway e Robert Fripp hanno in comune una caratteristica: nei loro rispettivi ambiti sono stati innovativi, unici e geniali; in un solo caso, però, hanno dovuto citare un altro artista per valorizzare le proprie intuizioni.
Hemingway era un maestro inarrivabile, persino nei titoli. Ne cito un paio: “Breve la vita felice di Francis Macomber” e “Un posto tranquillo, illuminato bene”; così evocativi che diventa quasi inutile leggere il testo.
Nella sua opera più riuscita, però, si è rivolto a un altro artista: il titolo del bellissimo “Per chi suona la campana” (1940), infatti, è dichiaratamente preso da un paragrafo della 17esima meditazione di “Devotions upon Emergent Occasions” (1624) di John Donne. Paragrafo diventato immediatamente così popolare, da essere isolato dal contesto e poi riconosciuto con il titolo “Nessun uomo è un’isola”, che si conclude appunto con: «non mandare mai a chiedere per chi suona la campana; essa suona per te».
Nel 1971, i King Crimson di Fripp concludono la loro avventura nel rock progressivo con un lavoro molto intimo che allude proprio a quello stesso paragrafo, tanto che il titolo dell’LP e della canzone più riuscita è “Islands”, isole. Composta da Robert Fripp, vede nelle strofe di Peter Sinfield un’ammessa variazione bucolica delle parole di John Donne.
Però (colpo di scena) non ho citato questa perla per sottolinearne la “costante di Donne”, ma per farvi ascoltare un altro brano dell’LP, composto dal solo Fripp (e già abbozzato nel 1968): “Prelude: Song of the Gulls”, un quartetto d’archi più ance molto evocativo, forse troppo. Ebbene, ricorda moOolto da vicino il “Coro a bocca chiusa” dal secondo atto di “Madama Butterfly”, di Giacomo Puccini.
Ma a Fripp voglio troppo bene e quindi non si discute. PuntoOgni giorno penso a lui, a Keith Jarrett.
Dal 2018, infatti, non può più suonare: un ictus lo ha semiparalizzato, minando irrimediabilmente la sua irripetibile creatività.
Qualche giorno fa, nonostante la sua proverbiale ritrosia, ha concesso una commovente intervista a Rick Beato: è un colpo al cuore, doloroso quanto bellissimoPiù passa il tempo e più sono convinto che l’ultima decade discografica di Miles Davis non sia stata un granché.
Per carità, dal vivo spostava le montagne, “Tutu” è notevole (ma non è composto da lui), parliamo comunque di una divinità assoluta; però quel Miles Davis era lontano anni luce persino dalla sua ombra.
In questa intervista del 1988 vengono fuori le sue contraddizioni, la sua stanchezza artistica, la stima per i ragazzi con cui suonava, un bilancio appassionato e asciutto della sua straordinaria carriera artistica